
L’ordinamento italiano attribuisce la maternità sulla base di un principio volontaristico: alle partorienti che non volessero riconoscere i propri figli è infatti riconosciuta la possibilità di lasciare il bambino in ospedale nel più totale anonimato, garantendo ad esso un’adeguata assistenza e tutela giuridica.
L’art. 30, comma 1, DPR 396/2000 prevede che qualora la madre voglia restare anonima, la dichiarazione di nascita – da effettuare entro 10 giorni dal parto – debba essere resa «da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto».
In particolare, la persona incaricata dovrà scrivere nella dichiarazione di nascita «nato da donna che non consente di essere nominata», mentre nell’atto di assistenza al parto un numero in codice (999) che corrisponde al caso di figlio non riconosciuto o di figlio di ignoti.
Le generalità della madre, pur non risultando dalla dichiarazione di nascita, rimangono rintracciabili attraverso il certificato di assistenza al parto e la cartella clinica: ciò perché deve essere comunque assicurata la possibilità di individuare, anche in un momento successivo, l’identità della madre biologica.
A riguardo, l’art. 93, comma 3, d.lgs. 196/2003 stabilisce che: «il certificato di assistenza al parto o la cartella clinica, ove comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata […], possono essere rilasciati in copia integrale a chi vi abbia interesse decorsi cento anni dalla formazione del documento». In altre parole, se la madre dichiara di voler rimanere anonima, le sue generalità sono coperte dalla privacy per cento anni.
Sono però previste due deroghe a questa disposizione. Infatti, il figlio che – compiuto il 25° anno di età – sia interessato a conoscere l’identità della madre potrà accedere alla relativa documentazione prima che siano decorsi cento anni, in caso di revoca della richiesta di anonimato o di decesso della madre.
La revoca della richiesta di anonimato può venire direttamente dalla madre oppure in conseguenza di un’istanza di interpello da parte del figlio.
Infatti, dopo la condanna dell’Italia da parte della Corte di Strasburgo per la rigida protezione dell’anonimato materno, è stata prevista la possibilità per il figlio non riconosciuto alla nascita (che abbia raggiunto la maggiore età, in assenza di revoca dell’anonimato da parte della madre) di richiedere al giudice la verifica di tale volontà.
Ove la madre confermi di volere mantenere l’anonimato, il Tribunale per i minorenni autorizza l’accesso alle sole informazioni di carattere sanitario, con particolare riferimento all’eventuale presenza di patologie ereditarie trasmissibili.
In caso di decesso della madre, invece, la necessità di bilanciare il diritto della donna all’anonimato e quello del figlio a conoscere le sue origini – entrambi costituzionalmente garantiti – prevale la posizione del figlio.
Infatti, come ha sottolineato la Cassazione nella Sentenza n. 19824 del 22 settembre 2020: «Venendo meno per effetto della morte della madre, l’esigenza di tutela dei diritti alla vita ed alla salute, che era stata fondamentale nella scelta dell’anonimato, non vi sono più elementi ostativi non soltanto per la conoscenza del rapporto di filiazione, ma anche per la proposizione dell’azione volta all’accertamento dello status di figlio naturale, ex art. 269 c.c.”.
In conclusione, con questo bilanciamento si riesce a tutelare, da un lato, il diritto della madre all’anonimato – incentivando le donne che non intendano tenere i propri figli a ricorrere comunque a strutture ospedaliere in grado di assisterle – dall’altro, il diritto del figlio a conoscere le proprie origini, altrettanto importante poiché espressione del diritto all’identità personale.
Area legale – Logos Famiglia e Minori
Studio Legale Roberti
Writer: Dottoressa Domiziana Piazza (paralegal)